Ultimamente si parla spesso di integrazione culturale, di intercultura, di accettazione, di globalizzazione e chi più ne ha più ne metta, a riempirci la bocca di belle parole e tanti buoni propositi, presupposto per una convivenza civile ed arricchente nelle reciproche differenze. Così pensiamo all’integrazione riferendola ai rapporti di convivenza tra popolazioni diverse, nazioni diverse, frutto di uno spostamento migratorio.
È senza dubbio il nostro futuro, la base fondante per un’evoluzione dell’essere umano, dove una città diventa nazione e una nazione diventa mondo, i confini geografici diventano alla stregua di strisce punteggiate su una cartina geografica. Nonostante ciò, quanto è difficile accettare qualcosa che è “altro da noi”?! Siamo costantemente sottoposti a richieste di integrazione, con il nostro partner, con i nostri figli, con gli amici, i colleghi di lavoro, eppure la chiamiamo “accettazione”, non integrazione, quasi ad indicare una sopportazione piuttosto che uno scambio.
Perché questa differenza?
Il termine “intercultura” indica un rapporto tra due o più culture che comporta l’arricchimento reciproco, così come il rapporto di coppia indica una relazione tra due persone che porterebbe ad un arricchimento di entrambi. In ogni caso, un arricchimento reciproco di valori, usi, costumi, tradizioni implica la necessità di una altrettanto reciproca modificazione. È proprio qui il problema, il cambiamento, l’abbandonare parte di ciò che è prettamente individuale per accostarci all’altro. Spesso ci barrichiamo in quello che siamo, nelle nostre idee e quadri di riferimento rispetto a noi, gli altri ed il mondo, ci difendiamo forti delle nostre ragioni perché la nostra famiglia è migliore di quella dell’altro, diventiamo i salvatori delle sue mancanze e carenze, ma spesso non approfittiamo delle sue ricchezze per colmare le nostre stesse criticità.
Quante volte litighiamo con il partner nominando l’intero albero genealogico? Quante volte ci sorprendiamo a rimproverare: “Sei proprio come tuo padre!”, “Tua madre ti ha allevato come un pulcino, senza accorgersi che sei diventato un pollo!”, “Sei isterica come tua sorella!”, “Farai la fine di tuo nonno!”.
A ben riflettere, nei litigi in cui si nomina la famiglia d’origine dell’altro, c’è in ballo qualcosa che ha a che fare con pensieri, sentimenti, bisogni e comportamenti non accettati o proibiti nella nostra famiglia d’origine. Se, per esempio, nella mia famiglia non è stato permesso di manifestare sentimenti di rivalità con mia sorella, mi sdegnerò nell’osservare che mio marito entra in competizione con suo fratello; se per me era normale iniziare a mangiare una volta che tutti sono seduti a tavola e hanno il piatto pieno, inorridirò nel vedere mia cognata che si riempie il piatto ed inizia a mangiare. Questo non significa che io non abbia mai provato gelosia nei confronti di mia sorella e non significa che, qualche volta, in preda ai morsi della fame, non abbia desiderato iniziare senza aspettare gli altri; semplicemente, per i miei genitori era probabilmente inaccettabile la manifestazione di alcuni comportamenti ed emozioni, così ho imparato a renderli inaccettabili nella mia vita, pur di non perdere il loro consenso (questo è un normalissimo processo che si svolge in ogni famiglia), e a criticarli duramente. È certamente vero che esistono delle buone maniere dettate dal Galateo ed è altrettanto vero che in ogni famiglia vengono adattate alle proprie abitudini.
Allo stesso modo, ci sentiamo in diritto di criticare aspramente i modi di fare di nostra suocera, nostro suocero, suo zio, sua nipote, dimenticandoci che la sua famiglia è parte di sé, come insieme di elementi si è creata un intreccio di dinamiche in cui nessuno ha colpe, ma tutti sono protagonisti responsabili dei propri comportamenti, pur non sapendolo. Invece la nostra mamma è quella “giusta”, il nostro papà ha i suoi difetti, ma è “adorabile”, i miei fratelli sono “particolari”, ma vanno accettati; la nostra famiglia va bene, a parte qualche angolo da smussare (se siamo fortunati ne vediamo qualche difetto), ma per noi rappresenta la normalità perché è stato il nostro mondo, la nostra campana di vetro, il nostro contenitore protettivo dal quale partire per esplorare la vita là fuori, il nostro metro di paragone per confrontare ciò che poi abbiamo osservato da spettatori nelle famiglie degli altri.
A parlare di famiglie e di culture, si corre il rischio di voler rendere oggettivo qualcosa di straordinariamente soggettivo perché ogni famiglia è un gruppo a sé, costituito non come somma di elementi, ma come insieme di parti uniche che si intrecciano in dinamiche altrettanto irripetibili, con variabili intervenienti ed imprevedibili e combinazioni mai uguali. Proprio per l’unicità di ogni famiglia, avremmo sempre da ridire nel paragone con la nostra realtà, se non fosse per quel legame che in ogni caso ci tiene uniti al nostro partner che è parte attiva di quello stesso gruppo che così spesso fatichiamo ad accettare. Le cose poi si complicano, se pensiamo che per capire almeno in minima parte un sistema-famiglia, bisogna inquadrarlo in una prospettiva trigenerazionale, entro la quale alcune storie tendono a ripetersi per perpetuare i miti familiari, mentre cambiano i protagonisti e le epoche storiche.
Se pensiamo allora alla nostra attuale famiglia, quella che stiamo costruendo con il nostro marito/compagno, e a che cosa ci tiene uniti, vediamo un incontro di bisogni ed emozioni che si muovono in un nuovo spazio di intersezione tra due culture familiari differenti, alla ricerca di una nuova combinazione tra il vecchio che scegliamo di accettare o rifiutare ed il nuovo che fa capo alle nostre menti, alle nostre preferenze, scelte di vita, periodi storici, emozioni, bisogni e desideri che nascono nel qui ed ora.
L’equilibrio sta sempre nel mezzo, nell’accettare le reciproche storie, accoglierle ed intrecciarle in una nuova trama, senza cancellare parti che in ogni caso cercherebbero una loro espressione attraverso l’intercapedine che si creerebbe proprio in quella “rimozione” di storia. Sarà proprio in quei segmenti cancellati o non accettati che i figli tenteranno di inserirsi a colmare la pellicola del film, sorprendendoci con comportamenti che tanto somigliano a quelli del nonno che non sopportiamo o alla zia di cui non si parla mai in casa.
Se ci pensiamo bene, abbiamo scelto il nostro partner con la sua vita, il suo passato e se spesso ci viene da dire che non abbiamo scelto la sua famiglia, mentiamo a noi stessi perché la persona porta sempre con sé una sua famiglia interiorizzata, un suo filtro attraverso il quale si muove nelle relazioni.
Tutto questo sarebbe integrazione di culture familiari, ma le dinamiche sono così complesse che fermarci a pensarle solo attraverso le parole appena scritte sarebbe veramente riduttivo.
Se penso a tutte le volte in cui credo fermamente che la mia famiglia, per tanti aspetti, sia più giusta di quella di qualsiasi altro, mi viene da mordermi la lingua per aver dimenticato che ogni nucleo familiare dà sempre il meglio che può per andare avanti e mantenersi unito, mettendo in campo tutte le risorse possibili per crescere i figli con l’amore che hanno potuto manifestare, a loro modo e con i loro mezzi a disposizione.
A voi viene da mordervi la lingua o da appuntirla ancora di più?
Riferimenti bibliografici
Andolfi M., Manuale di psicologia relazionale. La dimensione familiare, Roma, Accademia di Psicoterapia della Famiglia, 2003.
Crocetti G., I bambini vogliono la coppia. Per una genitorialità responsabile, Torino, Elledici, 2012.